Dentro il genio di Einstein: i tre pilastri del suo metodo

Il metodo scientifico che ha guidato Einstein alle sue scoperte più incredibili unisce capacità deduttiva, immaginazione e ricerca della semplicità.

Insieme a Galileo e Newton, Einstein è lo  scienziato che ha contribuito maggiormente alla nostra comprensione della realtà e delle sue regole di funzionamento.

Le fondamenta della fisica classica erano state gettate da Isaac Newton verso la fine del XVII secolo. Basandosi in gran parte sulle scoperte di Galileo, Newton aveva formulato delle leggi che descrivevano un universo meccanico altamente intellegibile: una mela che cade e una luna in orbita sono governate dalle medesime leggi della gravità, della massa e del moto. 

La fisica di Newton era rimasta sostanzialmente invariata per due secoli tanto che ancora nel 1900 il venerato Lord Kelvin dichiarava che “in fisica non c’è nulla di nuovo da scoprire; tutto ciò che resta da fare sono solo misurazioni sempre più precise.” Ma si sbagliava ovviamente. 

Nel corso di soli cinque mesi del 1905 Einstein rivoluzionò la fisica concependo i quanti di luce, la relatività ristretta e i metodi statistici per dimostrare l’esistenza degli atomi. Il 1905 è infatti passato alla storia come l’anno miracoloso di Einstein e viene comparato al 1666, l’annus mirabilis in cui Newton creò il calcolo infinitesimale, eseguì un’analisi dello spettro della luce e formulò la legge di gravitazione.

Nei dieci anni successivi, Einstein riuscì a generalizzare la relatività, a formulare le equazioni che definivano il concetto di gravità che Newton non era stato in grado di spiegare, a trovare una giustificazione fisica dei quanti di luce e a proporre una concezione della struttura globale dell’universo. Dalla più piccola cosa concepibile, il quanto, alla più grande, il cosmo, Einstein si era dimostrato un maestro.

Ma allora quale è il segreto del genio di Einstein? Durante tutta la sua lunga esperienza scientifica Einstein ha basato il suo ragionamento su tre pilastri principali:

-il ragionamento deduttivo a partire da assiomi o princìpi primi

-l’utilizzo sistematico di esperimenti mentali

-la ricerca della semplicità e della chiarezza (Rasoio di Occam)

Ragionamento deduttivo e principi primi

Nell’articolo del novembre 1919 scritto per il Times di Londra dal titolo Che cos’è la teoria della relatività? Einstein afferma che la teoria della relatività appartiene a quella categoria di teorie della fisica definite principle-theories, basate sui principi o assiomi, radicati su solide evidenze empiriche, grazie ai quali è possibile dedurre e spiegare in maniera analitica i fenomeni oggetto di studio. Ad esempio, afferma Einstein, la termodinamica cerca di dimostrare analiticamente le condizioni che guidano i fenomeni partendo dall’assunto universalmente accettato che il moto perpetuo è impossibile. 

In un articolo dello stesso anno intitolato Induzione e deduzione in fisica, Einstein è ancora più esplicito e afferma che “i progressi veramente grandi nella nostra comprensione della natura si sono determinati in un modo quasi diametralmente opposto all’induzione. La conoscenza intuitiva degli elementi essenziali di un vasto complesso di fatti porta lo scienziato a postulare in via ipotetica una o più leggi fondamentali. Da queste leggi, egli deduce le sue conclusioni”. Rispetto agli altri scienziati, Einstein aveva una maggiore capacità di individuare quelli che chiamava “i postulati e i principi di carattere generale che servono come punto di partenza”.

Per esempio la teoria della relatività ristretta, formulato nel 1905, si basava su due postulati: il principio della relatività introdotto da Galileo e il postulato della luce derivante dalle equazioni di Maxwell. 

La storia della relatività comincia nel 1632 allorché Galileo formulò il principio che le leggi del moto e della meccanica sono identiche in tutti i sistemi di riferimento con velocità costante. Nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, per confutare gli scettici che affermavano che se la terra fosse in movimento ce ne accorgeremmo, Galileo propose il famoso esperimento mentale della barca. Supponiamo di trovarci in una cabina sottocoperta di una grande nave ferma e di osservare alcuni fenomeni fisici come il volo di una mosca, l’andamento dei pesci in un acquario, la caduta di gocce d’acqua da un secchiello appeso in un vaso sottostante. Ebbene Galileo afferma che se facciamo “muover la nave con quanta si voglia velocità (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma.”

Il secondo principio su cui si basa la teoria della relatività ristretta è il postulato della luce che definisce che la luce nel vuoto ha una velocità di propagazione costante indipendente dallo stato del moto dell’osservatore e della sorgente. In sostanza quando si misura la velocità della luce emessa ad esempio dal fanale di un treno, questa avrà sempre il valore costante di 300.000 km al secondo, anche se il treno si sta avvicinando o allontanando da noi a tutta velocità. La fiducia che i fisici attribuivano a questo concetto derivava dalle scoperte nell’elettrodinamica di Maxwell e Lorentz. 

La cosa che turbava Einstein è che questi principi, pur essendo fortemente supportati da evidenze empiriche, apparivano in contraddizione logica tra di loro, almeno secondo i principi stabiliti dalla fisica di Newton. La teoria della relatività ristretta fu in grado di riconciliarli logicamente attraverso una modifica della cinematica, cioè delle leggi della fisica che si riferiscono allo spazio e al tempo, superando l’approccio prima di Galileo e poi di Newton. 

L’approccio utilizzato da Einstein è stato il seguente: se i due assiomi di partenza sono entrambi validi, ma appaiono inconciliabili sulla base delle leggi fisiche esistenti in quel momento, allora sono le leggi della fisica a dover essere modificate.

Il primo segreto di Einstein è quindi quello di lavorare per principi primi: affrontare i problemi partendo da verità empiricamente valide e che non possono essere messe in discussione e ottenere i risultati come conseguenza attraverso il ragionamento deduttivo. Questo tipo di impostazione gli ha consentito di attaccare e ribaltare teorie consolidate proprio perché si sentiva sicuro dei suoi punti di partenza (assiomi) oltre che delle sue capacità di ragionamento.

Anche la famosa equazione E = mc^2, che sarebbe diventata l’equazione più famosa di tutta la scienza, venne ottenuta per deduzione coniugando la teoria di Maxwell con la teoria della relatività e non partendo invece dai dati empirici che i fisici sperimentali avevano iniziato a raccogliere in merito alla relazione tra massa e velocità delle particelle. 

Gli esperimenti mentali

A differenza di Galileo e Newton, Einstein non era uno smanettone. La sperimentazione non ha mai costituito una parte essenziale del suo processo scientifico; anzi quando entrava in laboratorio per effettuare dei test molto spesso combinava solo disastri. Ma allora come faceva a mettere alla prova e validare la bontà delle sue teorie? Einstein, dotato fin da piccolo di una grande capacità di immaginazione e di intuizione dei principi fondamentali della natura, utilizzava i cosiddetti esperimenti mentali, che sono diventati il marchio di fabbrica del suo approccio. Gli esperimenti mentali gli servivano sia per testare i ragionamenti su cui stava lavorando che per generare nuove idee.

“La fantasia è più importante del sapere, perché il sapere è limitato.” (Albert Einstein)

Ad esempio fu proprio il famoso esperimento mentale del treno a spianare la strada che lo portò a risolvere la contraddizione tra il principio di relatività ed il postulato della luce e quindi a sviluppare la teoria della relatività ristretta. Con l’esperimento del treno, dove due osservatori, uno fermo sulla banchina e l’altro sul treno in movimento, percepiscono in maniera differente i tempi in cui due fulmini colpiscono la banchina, Einstein dimostrò che due eventi che sembrano essere simultanei a un osservatore non appariranno tali ad un altro osservatore che si muove rapidamente. E non c’è modo di dire se uno degli osservatori ha realmente ragione o se i due eventi sono veramente simultanei. Non esiste un tempo assoluto, ma tutti i sistemi di riferimento in moto hanno un proprio tempo relativo.

“Il tempo è relativo e il suo unico valore è dato da ciò che facciamo mentre sta passando.” (Albert Einstein)

Il concetto di tempo assoluto, ossia di un tempo che esiste in “realtà” e scorre in modo indipendente da qualsiasi osservazione, era stato un fondamento della fisica da quando Newton ne aveva fatto una premessa nei suoi Principia. Il fatto è che Einstein dimostrò che se il tempo è relativo, lo sono anche lo spazio e la distanza, rovesciando l’altro assunto di Newton. 

In sostanza Einstein partendo da due postulati che erano accessibili a tutti perché derivavano dal lavoro di Galileo (relatività) e Maxwell (velocità della luce) ed utilizzando un singolo esperimento mentale riuscì a ribaltare le fondamenta della fisica di Newton senza dover ricorrere ad osservazioni empiriche.

“Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo.” (Albert Einstein)

E fu un altro esperimento mentale che portò Einstein a formulare la teoria della relatività generale. “Nel 1907 ero seduto su una sedia all’Ufficio brevetti di Berna quando d’improvviso mi balenò in mente un pensiero”, raccontò Einstein. “Se una persona è in caduta libera, non avverte il proprio peso!”. Quel pensiero lo fece sobbalzare e lo avvio lungo un percorso di otto anni che lo portò a generalizzare la sua teoria della relatività ristretta in modo da includere anche una teoria della gravità. Einstein affinò il suo esperimento mentale immaginando un uomo chiuso in un cassa/ascensore nello spazio senza gravità, spinto verso l’alto da una fune con un moto uniformemente accelerato: l’uomo all’interno si sentirà spinto verso il pavimento e starà “dunque in piedi nella cassa esattamente come chiunque sta in piedi in una stanza di una casa sul nostro pianeta.” In sostanza una persona che si trovi in un ambiente chiuso non potrà dire se i suoi piedi premono sul pavimento perché l’ambiente è nello spazio esterno e viene accelerato verso l’alto oppure perché è in quiete in un campo gravitazionale: se estrae una moneta e la lascia andare, questa cadrà verso il pavimento con un moto accelerato in entrambi i casi. Per converso una persona che si accorge di fluttuare nell’ambiente chiuso non saprà se è perché l’ambiente è in caduta libera oppure perché si libra in una regione priva di gravità.

Ciò condusse Einstein alla formulazione del principio di equivalenza: gli effetti locali della gravità e dell’accelerazione sono equivalenti. Questo principio fu la premessa, il principio primo su cui basò la teoria della relatività generale che includesse anche una teoria della gravità. 

Anche se fosse stato un empirista convinto, Einstein non avrebbe avuto la possibilità di condurre gli esperimenti fisici che gli avrebbero consentito di concepire le sue teorie, perché troppo complicati da implementare o difficilmente riproducibili in laboratorio. Le teorie di Einstein vennero validate successivamente attraverso la verifica della loro capacità predittiva di fenomeni osservabili: la prova empirica decisiva che rese Einstein lo scienziato più famoso della storia della scienza fu quando, durante l’eclissi del 1919, gli astronomi inglesi verificarono che la deflessione della luce causata dalla gravità corrispondeva ai calcoli delle equazioni del campo gravitazionale di Einstein.

La ricerca della semplicità: il Rasoio di Occam

Einstein era guidato da una naturale predisposizione alla semplificazione ed era particolarmente allergico a concetti complicati che non trovavano riscontri nella realtà. Newton aveva basato le sua teoria sul concetto di tempo assoluto anche se pareva a disagio di fronte al fatto che a questo concetto non poteva corrispondere un’osservazione diretta. Ernst Mach definì la nozione newtoniana di tempo assoluto come “inutile concetto metafisico che non può essere commisurato all’esperienza”.

Sia Lorentz che Poincaré erano già pervenuti a molti degli elementi della teoria di Einstein ma non riuscirono a liberarsi di concetti indimostrabili come ad esempio l’etere. Come affermato da Freeman Dyson “nella ricerca di una nuova teoria dell’elettromagnetismo, Poincaré tentò di salvare quanto più possibile di quella vecchia. Amava l’etere e continuò a credervi, anche quando la sua stessa teoria mostrò che era inosservabile. Einstein viceversa, considerava la vecchia struttura ingombrante e non necessaria ed era felicissimo di liberarsene. La sua versione della teoria era più semplice e più elegante. Non c’era né spazio né tempo assoluto e non c’era nessun etere. Tutte le complicate spiegazioni legate a questi concetti finirono nella pattumiera della storia, insieme ai professori vecchi e famosi che ancora vi credevano.”

Einstein applicava quindi costantemente il Rasoio di Occam: tra due teorie egualmente esplicative è sempre da preferire quella che richiede meno assunzioni soprattutto se queste assunzioni sono difficilmente verificabili.

“Ogni cosa dovrebbe essere resa più semplice possibile, ma non di più.” (Albert Einstein)

Einstein percepiva inoltre la potenza della semplicità come elemento di comunicazione. Nell’articolo L’elettrodinamica dei corpi in movimento, dove nel giugno del 1905 espose la sua teoria della relatività ristretta, la maggior parte delle intuizioni vengono comunicate a parole e mediante semplici esperimenti mentali piuttosto che in complesse equazioni. L’articolo, uno dei più celebri della storia della scienza, è una dimostrazione lampante del potere del linguaggio semplice di farsi tramite di idee profonde e fortemente innovative.

“Se non lo puoi spiegare con semplicità, allora non l’hai capito abbastanza bene.” (Albert Einstein)

Conclusioni

La prima lezione di Einstein è che tutte le volte che ci apprestiamo formulare una teoria, risolvere un problema o semplicemente esprimere un’opinione, dobbiamo fare grande attenzione alle assunzioni da cui partiamo: siamo sicuri che siano realmente solide? Anche il ragionamento più raffinato, come dimostrano le esperienze di Lorentz e Poincaré, non ha valore se i presupposti di partenza sono sbagliati. Dobbiamo evitare di cadere nell’errore di prendere per buone delle ipotesi non verificabili, il nostro equivalente del tempo assoluto o dell’etere, semplicemente perché ci rendono molto più semplice sviluppare una teoria o una opinione che ci sembra abbia potere esplicativo.  

Einstein ci insegna anche che quando non possiamo “testare” empiricamente un fenomeno, non abbiamo a disposizione dati osservabili,  possiamo ricorrere all’immaginazione e valorizzare le analisi di scenario: “cosa succederebbe se…?” Anche immaginare situazioni che potrebbero sembrare assurde, come trovarci in un ascensore nello spazio o pensare a come ci comporteremmo se potessimo tornare indietro di dieci anni, possono aiutarci ad effettuare dei ragionamenti che non saremmo in grado di fare se ci limitassimo semplicemente all’osservazione di quello che ci circonda.

Infine Einstein ci ricorda di utilizzare quando possiamo il Rasoio di Occam: quando una teoria, un’interpretazione richiede troppe ipotesi di partenza allora dovremmo fare attenzione e preferire sempre le teorie, che a parità di potere esplicativo, richiedono meno ipotesi. Come affermato da Freeman Dyson, tutte le spiegazioni troppo complicate sono destinate a finire nella pattumiera della storia.

Bibliografia:

Einstein, Albert. What Is The Theory Of Relativity?. London Times, November 8, 1919.

Isaacson, Walter. Einstein. La sua vita, il suo universo. Mondadori, 2016.

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